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Recensione: "La classe non è acqua" di Antonio Caprarica

Gentili dame & gentili signori, buondì.

Quando ho iniziato a leggere questo testo, trovato per caso sull’internet (come piace tanto dire agli anziani), mi aspettavo molto dall’autore, che ebbi pure occasione di conoscere qualche anno fa in riguardo della presentazione del ‘fortissimo’ testo ‘Dio ci salvi dagli inglesi... o no?’.

Sinceramente, sono invece rimasto un po’ freddo per le considerazioni che poi mi sono fatto a posteriori.

Mah, beh, ora andiamo per ordine.

Anzi, perdiana, voglio proprio raccontarvi di quella volta che conobbi l’autore.

Era un assolato pomeriggio aprilesco (a dire il vero non ricordo se fosse né assolato - ma certo notte non fu – né aprile, né forse aprilesco si dovrebbe scrivere per rispetto alla Crusca, soprattutto perché poi sa di burlesco, ma in qualche modo dovevo attaccare il discorso, perciò...) ed io e la mia mamma ci recavamo baldanzosi alla presentazione del libro del sopra citato autore; titolo del libro: sopra citato anche quello.

Eravamo al centro di Roma, ricordo. In uno di quei palazzi settecenteschi dove fanno spesso i ricevimenti e dove altrettanto spesso trovano ristoro gli uffizi (da scrivere rigorosamente con la ‘z’ sennò non suona settecentesco a sufficienza) di altolocate aziende dai nomi pressoché oscuri.

Fuori, un grazioso selciato recintato da un prato all’inglese che correva tutto intorno – già indizio rivelatore della personalità che ci avrebbe introdotto alla presentazione del libro! – faceva da cornice ad un ambiente raffiné (ed anche questo nel dizionario non c’è...) come quelli che sono pericolosamente vicino ai palazzi del potere (si fa per dire) della Roma, ehm, imperiale. Beh magari imperiale no, ma repubblicana, o forse repubblichina, per qualcun altro, certamente.

A parte il ricordo di mia madre e di me vestiti di tutto punto, manco dovessimo ricevere la Regina Elisabetta II in persona (elemento che era un’eccezione per me, in quel periodo, segnato dall’abitudine di non capirci molto in fatto di dress-code o cose del genere – non che oggi non prenda severe cantonate di tanto in tanto nel merito...), ciò che più rimembro è il timore.

Anzi, proprio il terrore.

Ad un certo punto vedo nientemeno che l’autore – vestito impeccabilmente e dall’aspetto assai rispettabile e allegro.

Terrore!

Io, che ancora dovevo fare il corso di ‘bon-ton e portamento’, che doveva addivenire pochi anni in seguito, se non proprio l’anno venturo, a quell’esperienza, vengo colto da un proverbiale senso di inferiorità, anzi, di impreparazione. Senso che poi mi avrebbe continuato a cogliere anche a posteriori del corso (ma forse questo perché sono fatto proprio così, inizio a pensare).

Oddio! E mo’ che gli dico al Sig. – anzi - al Lord Caprarica! Io sono solo un ragazzo...” (e qui a qualcuno potrebbe venire in mente di citare l’episodio del sogno di Salomone, non ché questo c’entri molto, visto che in quel periodo ero tutt’altro che abile nel discernere, ma vabbé questo è un altro discorso).

Mia madre, invece, che è sempre stata un po’ ‘figghj’n’drocchia’ (termine intraducibile nell’italiano corrente – basti dire che è come si suole dire nell’amabile dialetto alatrense, quello parlato nell’omonima cittadina, già sostenuta dalle famose Mura ciclopiche di rilevantissimo interesse storico, paese che ha visto sorgere l’origine del ramo materno Quadrozzi-Gatta – ed eppure elemento che al momento mi manda fuori tema), riuscendo a risultare sempre amabile e naturale in ogni caso, riuscì a cogliere tempestivamente la palla al balzo dell’occasione, e mi introdusse proprio alla di lui persona, presentazioni durante le quali ebbi modo di strappare un autografo ‘per il libro’ (oh yeah, ancora conservato integerrimamente nella di mia personale libreria) ed aggiungere il tristissimo commento al felice incontro (seppur molto imbranato per colpa solo propria): “Lo sa, io sono filo-britannico come lei!”.

Al che, vi lascio immaginare, il Caprarica, senza sgomento alcuno, a dire il vero abbassa leggermente, solo per un attimo, la penna (ma questo a dire il vero lo fa perché aspetta di sapere il mio nome da scrivere sulla pagina dietro il frontespizio), e scrive, sorridente: ‘al mio amico anglo-filo Francesco’ (e non ‘filo-britannico’, sicché esser ‘anglo-fili’ è cosa ben diversa, non è come il dare di scandalo alle patrie istituzioni dichiarandosi ‘filo-britannici’!).

Vabbé, ora, però, lasciamo da parte questo pur preziosissimo cammeo che mi ha visto partecipe nelle avventure giornaliere dell’autore, e concentriamoci sull’opera stessa, che, purtroppo, proprio non è quella che Lord avrebbe presentato quel giorno. Sigh... (più avanti si capirà del mio grigiore qui sottolineato da apposita onomatopea di derivazione pressoché disneyana).

UN TESTO PER TUTTI?

-Come vivono i sibariti d’oggigiorno?

-Può ad un italiano interessare un tema del genere?

-Questo libro promette molto, e me lo darà, vero?

Questi sono stati i tre interrogativi da cui sono stato colto al momento di formalizzare l’acquisto del testo su E-Bay.

Il viso sorridente dell’autore, in ottima tenuta tight per le occasioni ‘celesti’, con tanto di plastrom non elastico ma annodato, proprio come piace alla Regina Elisabetta II, era come se mi parlasse: ‘tranquillo Francesco, qui trovi tutto quello che cercavi – un po’ di quelle stille di sana nobiltà e follia dell’alto rango’.

Effettivamente ciò che mi aspettavo più dal libro era un intreccio assai vivo di quanto pareva potersi cogliere dalle avvisaglie tracciate intorno all’internet (sempre come dicono gli anziani): un paio di recensioni fatte ‘al volo’ da acquirenti ne lodavano i temi e la scrittura, una riassunzione fatta dall’autore (presumibilmente) ne sottolineava invece l’originalità del trattato.

Già ma di che tratta il libro?

Il libro tratta di nobili. Tratta della vita dei nobili: dei loro vezzi, ghiribizzi e della loro quotidianità che si consuma tra una caccia alla volpe (già da tempo aggressivissimamente proibita dal passaggio della legge voluta dai neo-laburisti di Blair, ma di fatto ancora segretamente praticata da una cerchia ristretta di anime) ed un cognac davanti al caminetto dopo aver gustato del filetto d’angus. O, più realisticamente, tra una puntata alla ‘buvette’ della Camera Alta (quella dei Lord) ed una nel cuore finanziario della City stessa, sicché anche i nobili evolvono e si danno (anche questa volta) agli affari più proficui.

Semplici cavalieri, baroni, conti o marchesi, non c’è limite che tenga alle storie che girano intorno alla severa aristocrazia inglese. Racconti leggendari di guerrieri medievali animati dal sincero, ‘sàssone amore’ per la propria terra, ma pure guidati da uno sprezzante amore per il pericolo e... la fama. Cosette come certi pensieri che ti portano alla difesa delle coste nazionali da invasori voraci di terre e mogli – fino alle illustri cadute di stile dei nobili novecenteschi, capaci di vantarsi con letizia (e pubblicamente) di non aver mai letto, in tutta la loro vita, più di un libro se non lo ‘Zanna bianca’ del London (pure lui, parenti anglo-sassoni?).

Roba da ridere insomma. Seriamente!

Poi è arrivato il libro in destinazione. Di conseguenza, l’ho aperto (pur sorprendendomi, l’ho fatto sempre alla stessa maniera, e cioè voltando la copertina, e ripeto, VOLTANDO la copertina, NON passando un dito su un anonimo booklet, dacché la mia conversione all’anonimo tecnologismo è ben lungi dal realizzarsi – PFUI!).

E in un certo senso avrei voluto che questo non fosse mai arrivato a destinazione.

Se infatti mi posso permettere di descrivere il fascino esercitato dal testo sotto di una forma grafica (e comunque lo posso fare), mi troverei nella non facile situazione di rappresentarlo così:

FUN.JPG

Beh, forse è un’esagerazione, diciamo più così:

FUN2.JPG

Analizziamo tuttavia il perché di questa apparente stroncatura.

UN TESTO PER ‘COMARI’

I primi capitoli sono molto interessanti. Come già avete un po’ compreso, io, che sono filo-britannico, e non solo anglo-filo (contrariamente da quanto scritto da Mr. Caprarica) - ma non chiedete di spiegarvi tutti i motivi sennò ci metto vent’anni - mi sono molto divertito per le interessanti perle narrative che raccontano di personaggi inequivoci – e tuttavia tutt’altro che improbabili – presi da episodi quasi favolistici, a tratti boccacceschi; come casi di potentissimi Lord colti da ubriacature mortali dopo nottate di sbornia per festeggiare la vita, od episodi di vite memorabili sciolte nella filiazione di circa 132 pargoli, tra eredi legittimi e non (ma tutti giuridicamente riconosciuti dal padre – e qui sta il finale d’incanto!).

Oppure, come non citare il capitolo dedicato a quel Lord intrepido, ed alle sue legioni (=doppie dozzine) di wifelets, letteralmente, ‘mogliette’, tutte rigorosamente viventi sotto lo stesso tetto della di lui villa baronale (in tal caso lascio alla vostra immaginazione qualsiasi spunto concreto e conseguente lezione di vita)?

Il libro, c’era poco da fare, era partito a razzo. Ed aveva fatto breccia.

Poi, però. Poi, però, eh già.

Arriva il capitolo sui castelli di quello, sulla eredità stimata dell’impero del talaltro. Analisi piuttosto approfondite. Stiamo parlando di persone, per carità, tutte vite terribilmente importanti.

Ed eppure l’autore manca di trasmettere mordente a queste storie di vita, anche spesso di successo (non solo estintesi in ubriacature leggendarie od in sconfortanti dilapidazioni patrimoniali), e così ci arriva uno stralcio di vita terribilmente ordinario, anzi no, terribilmente ‘casual’, terribilmente noioso, nei capitoli centrali del libro (tanto che io ho maturato una terribile affezione al termine ‘terribile’, tanto che dovrei smettere di usarlo, magari insieme al ‘tanto’, che in Giappone è pure uno strumento di morte, tra l'altro).

Nello specifico: è molto bello sapere di Eton, la public school per eccellenza (non è una classica ‘scuola privata’ come nel nostro Belpaese) dal quale il prode Cameron è affiorato con successo fino a venir traghettato al n.10 di Downing Street (sede dell’esecutivo inglese), oppure di tutte le storie dietro di quella istituzione magnifica, che trattano pure di un passato fatto di violenze malsane e metodologie educative discutibili, oltre che dell’irripetibile offerta didattica (e non solo) donata a quelli che se lo possono permettere (che, per la cronaca, purtroppo sono sempre meno visto il ‘restringersi dei cordoni della borsa del rettorato’) e che pure ha avuto il merito di far distinguere nel mondo politico – economico quelli che di per loro non avevano grandi possibilità di investire sul proprio futuro.

Ma – raccontarci delle inner stories, cioè di cosa accada dietro alla facciata, non può edulcorarsi fino a rasentare la metodologia di vita quotidiana di alcuni Lord, seppur arricchitisi.

In queste occasioni, il libro, cambia volto: diventa più un ‘discorso tra comari’, non so se è chiaro.

Anche tutta l’analisi dell’impero dei Middleton, 'esploso' grazie all’evento matrimoniale del secolo, è troppo, troppo... ciarliera.

Risultato: i capitoli centrali del libro (non so se l’avevo già scritto, o se solo disegnato, se fatto in entrambi i casi lo ripeterò, pazienza) sono una ‘pezza calda’. Accezione con la quale definisco qualcosa di estremamente noioso.

L’autore riesce in seguito a ritirarsi un po’ su, dal puro e semplice gossip, grazie all’analisi di tematiche come l’eccellenza di Eton, l’ascesa dell’attuale Primo ministro britannico, l’etichetta e le tendenze di Sua Maestà o la presenza di sessuomani tra gli avventori delle scampagnate a cavallo (e chi non lo sarebbe in certi ambienti, con certe occasioni; Dio sia benedetto per averci risparmiato tutto questo – niente in contrario alle scampagnate in cavallo, per carità, sono pure molto divertenti, il problema semmai è tutto nell’arrendersi alla tentazione in certe occasioni, e coi propri conoscenti!), cosa che ridona un po’ di colore ad un quadro spentosi nell’acquaragia dell’assenza di witty facts (episodi spiritosi con risvolto d’arguzia, che denotano l’intelligenza di chi li riporta) o di storie semplicemente vive e portatrici di insegnamenti - ma ebbene, tutto ciò non è purtroppo sufficiente per fare un saldo positivo di quanto letto fino ad allora.

AI TESTER L’ARDUO POSTERS

Il giudizio, perciò, non può che essere peggiore di quanto sperato: da Caprarica, sommo reporter ‘super-humoristico’ presso la Corte di Re Artù, mi aspettavo ben di più. E precisamente: un ironico (e questo il testo lo è, meno nella parte centrale) e istrionico, quasi, racconto degli aspetti umani (e non...) più pittoreschi di questi protagonisti dai ‘lombi insigniti’. Una specie di carosello, pur razionale, di altresì corbellerie dette da personaggi invece tutt’altro che nobili o di audaci e sovraumane gesta al limite della follia suicida. Una specie di racconto cappa e spada, però soprattutto con protagonisti che odiano il gossip, la gestione contabile, e fermamente inzuppato nella realtà, dove nomi e volti sono concreti. In parte questo c’è, maaa... avete capito.

Forse la colpa è solo dello scrivente, che si aspettava troppo da chi realmente mi ha già dato molto col suo precedente scritto, appunto ‘Dio ci salvi dagli inglesi... o no?’, che è una specie di vademecum per il perfetto filo-britannico (od anglo-filo... ma suvvia; alla fine si finisce sempre per tifare per le vermiglie strisce di San Giorgio rispetto che per la scosciata Marianne franca o per il cisalpino tricolore nostrano, questo è certo) appassionato di una tale realtà così fuori-luogo, fuori-tempo (e fuor-di testa) rispetto alla nostra forma mentis latina.

Perciò, per concludere, il libro, di per sé, viene promosso con la sufficienza, seppur con moltissime riserve da parte del sottoscritto che lo sconsiglia per i motivi sopra elencati, mentre il suo recensore, beh... probabilmente non farà questo mestiere giammai, perciò questo mi toglie pure dalla difficile situazione di dovermi contestare per aver combinato più un disastro che un tenue accenno di revisione.

Pazienza: finché c’è vita c’è speranza.

Alla prossima occasione, ladies and sires.

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