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Recensione: "Diritto e terzietà nella figura di Alexandre Kojève" - una tesi di laurea magistrale in

Gentiluomini e gentildonne, benvenuti anche oggi a questo luogo di perdizione ove la debolezza regna sovrana ed il peccato, com'è noto, sovrabbonda (la prima affermazione la scrivo perché sono stato proprio ieri malaticcio e anche oggi mi rendo conto di quanto sia deboluccio, la seconda perchè è vero, e comunque 'fa scena').

Oggi proverò a lanciarmi nella assai virtuosa impresa che è quella di recensire nientemeno ciò che è il lavoro finale prodotto dalla mia coniuge nel lontano 2007.

Ebbene sì: recensirò la sua tesi di laurea.

Ci si può chiedere: "ohibò, perché recensire una tesi di laurea della propria moglie?"

Qualcuno potrebbe immaginare che sotteso a ciò vi sono state violenze perpetrate dalla stessa nei miei confronti, o minacce di vario tipo, volte a far conoscere il ‘saper proprio alla moglie’ ai quattro lettori del blog.

E invece no, niente di tutto questo; anche se confermo che ho subìto ingiurie per tutto il resto del tempo, ma questo solo quando ci litigo, con Rossella (e le rispondo a tono, ma forse questo ci interessa meno, in questa sede).

Ora, però, è doveroso allontanarsi dalla descrizione che faccio del quadretto familiare, sì vivo e toccante, per esporre appunto il di lei lavoro. Iniziamo.

UNA TESI MAGISTRALE

Eccolo. Come titolo mi par perfetto. Una tesi magistrale! Vero. E non solo perché si va ad incuneare (che brutta parola, per lei che di Cuneo non è, ma bensì di Torremaggiore!) al termine del suo percorso giuridico durato meno di cinque anni (la ragazza aveva fretta), ma perché porta comunque, tale discettazione, in grembo, delle interessanti tesi che sono degne di venire approfondite.

Arriviamo al nocciolo.

Il nome della sua ricerca è: ‘Diritto e terzietà nella figura di Alexandre Kojève’.

E qui si fa necessaria subito una specificazione: il testo non tratterà dei mali delle persone in avanti con gli anni.

Non si parla infatti di terza-età, ma bensì di terzi-e-tà.

E non sto scherzando: perché io stesso, realmente, la prima volta che l’ho letto pensavo che un pochino, anche solo un briciolo, avesse a che fare con gli anziani. Infatti la sentivo già mia... ma poi ho scoperto che invece la terzi-e-tà è un’altra cosa.

La terzietà (ora sento di avere coraggio sufficiente per scriverlo interamente di seguito) è quella cosa che si fa presente al di là del rapporto dualistico tra due soggetti, persone od istituzioni giuridico-amministrative altresì (Oddio, sto scrivendo sempre peggio. Forse dovrei pranzare, invece di continuare a scrivere ‘sta roba. Abbiate pazienza...).

E chi ha studiato la terzietà? Esatto. Questo tipetto: Alexandre Kojève (non fate come la mia donna: non pronunciatelo Kojévé, ma bensì Kòjèv, dacché le regole del francese non conoscono, al contrario di quelle dell’itagliano, giustificazione alcuna, ed io, modestamente, posso dire di conoscere quell'idioma sufficientemente da poter affermare con sicurezza di averlo studiato per anni, per poi averne perso quasi completamente la possibilità di parlarlo, per mero disinteresse. Proprio ora che mi serve per un concorso. Ma ‘azz...).

Ma comunque, torniamo al personaggio, allo studioso del diritto, precisamente.

Studioso di diritto, esatto, questo è ciò che è Kojève. Un filosofo del diritto che ha avuto la bravura – e la pazienza – di immergersi nei meandri del pensare, e soprattutto del significato e significante della relazione tra due soggetti, dotata ovviamente di matrice giuridica, per trarne fuori un insegnamento stupefacente, direi, perché inaspettato: e cioè la certezza che per aversi un solido rapporto di diritto, le due parti in gioco, cioè quelle che pongono in essere un rapporto di diritto, debbano essere invece... tre!

E qui mi immagino la faccia di molti di voi che ripensano a tutte le volte che si era andati a far la spesa, e si era solo in due: tu, e la commessa. Più un qualche milione di utenti come te (che però non conta). Epperò si poneva egualmente in essere un contratto detto di ‘compravendita’, dai giuristi.

Ed anche a me è venuta in mente la stessa cosa, che ora spiegherò meglio.

La verità è, come ci spiega mia moglie, nella sua ricerca, che; se due soggetti pongono in essere un rapporto giuridico, in realtà non c’è ‘entrata dei due mondi l’uno nell’altro’, non c’è una vera e propria relazione giuridica, di regole o norme, e giustizia (si faccia attenzione al significato delle parole, non tutte le metto a caso), non si ha un rapporto tra due persone, ma tra due entità numeriche, ove il numero ‘due’ si coglie solo in senso economistico e generico, potendo le parti in gioco essere anche più di due, ma che comunque si fanno... ‘latrici’ (sì, concordo con voi che questa parola fa un po’ schifo) di due interessi contrapposti.

Mi spiego meglio.

È il classico caso del negretto con il cappello caratteristico del suo paese che ti dice:

“vedere soldi, gombrare gammelli”.

Bene. La terzietà va oltre. La terzietà è il terzo imparziale, che fornisce rilievo ‘umanistico’, anzi, ‘personalistico’, al rapporto: che lo riveste di relazione.

Il terzo è il giudice, o il mediatore. Con il giudice, od il mediatore, coinvolti nella nostra transazione, allora siamo sicuri di non star ad assistere semplicemente ad una scena di una compravendita ‘che si verifica’ tra due parti, che è come al supermercato così come dietro il freddo schermo delle pagine di 'E-Bay'.

Col terzo tutto si rinnova, insomma.

Il giudice ed il mediatore, infatti, hanno questa capacità di legare tra di loro le due parti in gioco (non solo i loro interessi!) e di riconoscerne l’importanza, l’entità della loro richiesta. E oltretutto, la richiesta è importante perchè ci sono dietro persone.

La monografia, infine, si conclude con un terzo, pesantissimo, capitolo (io stesso, che non riuscivo a dormire ‘alla notte’, l’ho utilizzato come potente narcotico capace di farmi addormentare nell’arco di 6-7 minuti, al ché mi sarei risvegliato direttamente il giorno dopo fresco come una rosa) che sottolinea la degenerazione del significato del terzo ad oggi.

Si parla, o meglio, l’autrice, cioè mia moglie, parla, anzi scrive, a destra e manca, del fatto che qui e lì manca un giudice vero e proprio, uno capace di applicare anzitutto la giustizia prima che il diritto: e cioè di fare una scelta per i due soggetti che sia dettata dal caro vecchio ‘discernimento’, anziché dal ‘formulario della dottrina’ (con ‘dottrina’ si intende l’insieme delle decisioni prese precedentemente dai giudici connazionali, che per comodità, o per aiuto, o chissà per qual’altro motivo che sia al di fuori del ‘non-so-che-pesci-pigliare’ viene messo per comodità dei giudici e degli studenti all’interno di certi codici, civili, penali, ecc.).

Non si tratta perciò di innovare il diritto, creando regole proprie, cosa che non si può ovviamente fare, ma di fare la scelta giusta nel novero dell'area in cui ci si può muovere.

In merito a ciò, pur dopo aver profuso moltissime fatiche per aver concluso l’ultima parte della ricerca (cosa che torno a sottolineare: mi ha portato via parecchie notti), come già scritto sopra, posso anch’io confermare che, almeno presso Roma e dintorni, è purtroppo così: i giudici sembrano – a volte – non solo prendere decisioni non tenendo conto del bene delle due parti, ma addirittura si ergono a soggetti tutt’altro che imparziali, giudicando, già prima della formale sentenza, una delle due parti che viene di volta in volta ascoltata (parola mia, sono stato co-protagonista di una vicenda giudiziaria in cui, mia madre, accedendo presso un giudice, che tra l’altro non era di primo pelo, ma era nientemeno che il Presidente del tribunale, venne apostrofata, proprio all’inizio del suo interrogatorio: ‘Signora, ora non mi dica che lei non ha una lira!’ ... a voi lascio immaginare quanto ‘imparziale’ o ‘secondo giustizia’ sia stata, successivamente, la sentenza stessa, alla fine del processo).

Siamo, perciò, ad oggi, essenzialmente schiavi del pre-giudizio. Non della im-parzialità. Magari fossimo stati schiavi della im-parzialità!

Il che mi fa anche capire perché Rossella, sempre mia moglie (non è cambiata nel frattempo) abbia poi lasciato da parte, definitivamente, nella sua vita, la carriera di avvocatessa. Ma ora, a noi non interessa questo – bensì interessa giungere alla fine di questo... sostanzialmente esasperato intervento, per tirare le necessarie conclusioni.

C’è molto da fare. Molto da lavorare. La distanza da colmare, ad oggi, sembra abissale. Non è poco probabile che gli stessi giudici, i terzi imparziali avvocati alla funzione di giudicare le controversie, siano confusi anch’essi non avendo più punti di riferimento nella loro vita. Se non il denaro. O la fama. O l’egoismo. O tante altre cose di cui possiamo soffrire noi stessi ogni giorno.

Ma questo non deve farci paura. Sicché anche i giudici sono prodotto della società, non è impossibile che la situazione possa cambiare. Il Bene, il Bello, il Giusto, può tornare a trionfare. Ma questo richiede impegno personale, di tutti noi.

Mi accorgo solo adesso che trarne conclusioni, è impossibile, se non parlando per ‘massimi sistemi’, di tutta la società intesa come ‘unicum’, rischiando però di essere molto inconcreti (cosa in cui io eccello). Ma rimane tuttavia la speranza di aver portato alla luce qualcosa che è degno di essere approfondito, affinché al cambiamento un altro pò, ci si pensi. E per il meglio.

Dentro, e fuori i tribunali.

Alla ... prochain fois (scritto rigorosamente in francese per dovere di coerenza coll’oggetto della ricerca!)

DOVE TROVARE IL TESTO DELLA RICERCA: casa mia. Giuro. Se sarete invitati, ne potrete visionare (ma questo significherà anche che sarete costretti a leggervi pure il terzo, pesantissimo, capitolo, e ciò forse creerà più nocumento, che beneficio).

p.s.: Proprio l'altro ieri ho rimesso mano ai miei vecchi(-ssimi) appunti di diritto romano, quando avevo incominciato il percorso, mai completato (ma guarda un pò!), di Scienze giuridiche. Sapete cosa diceva uno dei primi giuristi che la storia ricordi? Ve lo scrivo di seguito. E vi prometto che non commenterò oltre.

* * *

Ulpianus libro secundo regularum

pr. Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi.

tr.: La giustizia è la costante e perpetura volontà di dare a ciascuno il suo.

1. Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere.

tr.: 1. Tre sono i precetti del diritto: vivere onestamente, non ledere l'altro, dare a ciascuno il suo.

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